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Oggi andiamo un pochino più lontano del solito, sconfiniamo in Umbria, regione con cui abbiamo tanto in comune.
Ho voglia di farvi conoscere un signorino che ha sconcertato pure me per le sue origini inaspettate.
Siamo negli anni Settanta quando tra i pozzi di petrolio si aggirano Bobby e JR, sì siamo nella mitica Dallas, colonna sonora della mia infanzia, molti di voi forse non se li ricordano neanche più, ma per me sono rimati impressi come il Texas!
Proprio in quegli anni i fratelli Menconi, decisero di importare 100 coppie di piccioni proprio da lì, mi ce li vedo proprio i nostri piccioncini a stelle e strisce con il cappellino da cowboy.
Infatti in quel di Spoleto, la famiglia Menconi fonda la Colombo Italia e investe nell’allevamento di piccioni; visto che i francesi (primi consumatori in Europa) acquistavano i volatili da lì, pensarono di seguire l’esempio.
Non avete idea di come per me, che da dieci anni spiego agli statunitensi che i piccioni che serviamo non sono quelli di piazza San Marco di Venezia, sia stato scioccante scoprire che provengano proprio da casa loro.
Infatti gli americani sono stati i primi a investire in selezione di razze, in modo da ottenere un uccello che avesse la sufficiente massa muscolare, i nostrani sono invece carenti di petto, per questo era necessario trovare, tramite incroci, un giusto bilanciamento.
La parte più affascinate è il rapporto della coppia, infatti i piccioni creano un rapporto esclusivo, saranno una coppia per sempre e abiteranno insieme sempre nella stessa casetta, insieme alleveranno i piccoli e se per caso rimangono soli, raramente si riaccoppiano.
Una buona coppia produce anche 12 piccoli l’anno, i quali non possono essere allevati in modo intensivo poiché fino allo svezzamento devo essere imbeccati dai genitori, pensate che nei primi cinque giorni il piccolo raddoppia il proprio peso ogni giorno, grazie alla sostanza secreta dai genitori, chiamata “latte di gozzo”.
L’aspetto negativo è che il piccione da carne è il cosiddetto “svolacchiotto” o piccioncino, cioè il volatile ha circa 25/30 giorni e per far sì che la sua carne non si rovini, va raccolto dalla casetta prima del primo volo, altrimenti il petto si indurisce.
Mentre i genitori rimangono in funzione per circa quattro anni, al termine del loro lavoro diverranno i “fine carriera”.
Proprio di questa varietà mi voglio occupare oggi, premettendo che, è difficile anche per un cuoco comprendere le dinamiche della produzione della carne, ma ricordiamoci di aiutare i produttori che lavorano in serietà e che riducono il più possibile la sofferenza, regola fondamentale per il reciproco equilibrio.
Ma andiamo in cucina, io il piccione lo mangio così: il “fine carriera” è un animale adulto che ha volato e quindi non può essere servito al sangue, ma deve essere cotto in umido, quindi ecco che lo privo della pelle, infarino e salto in olio, in modo da renderlo ben colorito.
Nel frattempo arrostisco in una teglia del sedano, carota e cipolla tagliati in pezzetti, con aglio, alloro e rosmarino, aggiungo il piccione, sfumo con del vino rosso, aggiungo poco pelato e del brodo vegetale, quindi cuocio coperto in forno a 180° per un ora.
Lascio raffreddare, separo la carne dalle ossa, affetto la polpa in modo grossolano e passo dal passaverdura il rimanente della cottura.
Scaldo la salsa ottenuta, aggiungo la carne ed ecco la mia salsa di piccione che è pronta.
Ci salto dentro degli gnocchi e servo su della salsa ottenuta cuocendo dell’uva da vino con dello zucchero e poi passata per trattenere semi e buccia.
Ecco a voi i miei gnocchi al piccione e salsa d’uva.
Matia Barciulli, chef, coordinatore tecnico ristoranti Antinori, babbo di Brando
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