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Annelisabeth Hodgson è una tranquilla signora inglese che dal 1980 vive in Italia. Qui ha trovato l’amore e costruito una famiglia.

Dal 2010 svolge volontariato presso il carcere di Sollicciano come membro dell’Associazione Pantagruel.

L’abbiamo incontrata per farci raccontare come è nata la sua avventura in Italia e cosa dei nostri luoghi l’abbia conquistata per decidere di non ritornare in Inghilterra, nonostante la morte del marito nel 2000.

“Io studiavo Macrobiotica – inizia a raccontare Annelisabeth con il suo inconfondibile accento inglese – a Londra presso il centro Community Health Foundation, di sera. Lavoravo come segretaria di giorno: e come segretaria dovetti scrivere una lettera a un professore italiano per invitarlo a un seminario presso la nostra scuola. Quando ci siamo incontrati io gli sono andata incontro per dargli la mano e c’è stata una scintilla, che nessuno dei due capiva. Siamo stati tutto il giorno insieme, passeggiando per un parco e poi lui è tornato in Italia ed io a casa mia”.

Annelisabeth incontra di nuovo il “suo” insegnante italiano ad Amsterdam, poco tempo dopo, e da quel momento lui la invita ripetutamente a Firenze. La storia va avanti per cinque mesi fino a quando “Ferro mi chiede se io posso restare – continua Annelisabeth – e così dal nostro primo incontro a vivere definitivamente in Italia, passarono appena sei mesi”.

Prima in via della Campora a Firenze, poi a Impruneta, nel 1983 Ferro acquista una casa alla Romola e qui, dove lei abita ancora, nascono tre figli. Poi, nel 2000, la morte prematura del marito.

“Non è stato facile – ammette – crescere tre figli da sola in Italia ma ho trovato tante persone gentili e tanti amici che mi hanno aiutata ad andare avanti, soprattutto mio fratello dall’Inghilterra mi ha aiutato tanto”.

Passano gli anni; i figli diventano grandi ed Annelisabeth sente il bisogno di impegnarsi in qualcosa di importante. Dalla filosofia della macrobiotica lei ha imparato “che ogni cosa ha due facce, come una moneta. Non puoi separarle perché altrimenti non c’è più la moneta: dove c’è bellezza, c’è anche bruttezza, dove c’è simpatia, c’è antipatia. Noi vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Quello che non ci piace lo nascondiamo perché ci fa paura, perché altrimenti non potremmo vivere”.

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Annelisabeth questa zona d’ombra l’ha voluta affrontare e quindi “insieme alla mia amica Lucia – ci spiega – a settembre del 2009 abbiamo deciso di andare in carcere come volontarie. Per farlo abbiamo dovuto fare un corso per capire le dinamiche e le leggi del carcere. Tutto questo grazie all’Associazione Pantagruel, di cui facciamo parte, e nel 2010 abbiamo iniziato questo percorso che mi ha fatto capire tante cose”.

“Io seguo un gruppo di ragazzi africani – continua – che parlano solo inglese. Questo è il mio compito; portare una faccia amica per far loro capire che a qualcuno importa di loro ed ora questa è diventata per me una ragione di vita”.

“Quando io avevo 18 anni – ci racconta – mio padre mi vide parlare con un ragazzo africano e mi picchiò perché era razzista. Così per gran parte della mia vita io ho avuto paura degli uomini africani. Poi arrivai in prigione e dovevo parlare con questi ragazzi. Ho scoperto, al contrario, che sono di una dolcezza, di una fede, di una pazienza infinite. E sono così umani che mi sono detta… perché ho avuto paura di tutto questo per tanti anni? E’stata una bella lezione”.

Annelisabeth porta dentro una grande serenità d’animo, conquistata negli anni. Anche a caro prezzo. Riscaldata dal sole del Chianti, ha deciso di continuare a vivere alla Romola dove sono ormai le sue radici, dove custodisce la sua storia. In fondo le nostre colline assomigliano tanto al suo Kent dove è nata.

Ci lascia con una riflessione di largo respiro: “Il modo di pensare è così diverso che non è nemmeno confrontabile: io non posso pensare come un italiano e non posso pensare che un italiano pensi come me. Ma in 35 anni di vita qui ho accettato la differenza, e faccio del mio meglio. Solo nel confronto il mondo può crescere un po’”.

Silvia Luis

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