“Fin da ragazzo avevo una passione: ascoltare gli anziani”.

È da questo semplice gesto, fatto di attenzione e memoria, prende forma “Nascere nel Chianti”, il libro di Leonardo Baccani edito da Chiria (casa editrice mercatalina).

Quasi… grevigiano (di Tizzano), geometra, viaggiatore, cacciatore, scrittore per passione e testimone di un mondo che cambia.

“La sera, d’estate, ci si ritrovava a veglia. Le storie venivano fuori da sole: aneddoti, proverbi, ricordi. Un patrimonio orale che rischiava di sparire”.

Incoraggiato anche dagli amici Baccani inizia a raccogliere scene di vita del Chianti tra gli anni ’50 e ’70.

Cosa lha spinta a raccontare proprio quel periodo storico?

“Erano anni in cui tutto aveva ritmi e scenografie diverse. Le parrocchie erano vive, i mestieri numerosi e ogni paese aveva la sua identità. E poi le trasformazioni erano evidenti: in vent’anni è cambiato tutto. Si è passati dal lavare ai lavatoi pubblici a lavatrici e frigoriferi in casa, dai motorini alle auto con l’aria condizionata. E questo ha avuto effetti anche sul senso di comunità”.

Ci sono mestieri che oggi i giovani nemmeno conoscono. Ce ne racconta qualcuno?

“Certo. C’era il carraio, ad esempio: costruiva i carri per i buoi, con ruote di legno perfettamente fatte a mano, i raggi curvati e poi rifiniti con un cerchio di ferro. Non serviva certo la convergenza, erano precisi al millimetro. E poi il maestro barilaio, che faceva le bigonce – tini in legno – con i cerchi anch’essi di legno, a misura esatta. Una, due, tre bigonce: oggi vendiamo l’olio al litro, ma allora si pesava in chili. Era tutto un altro mondo”.

Cosa significa per lei nascere nel Chianti”?

“Non è solo geografia, è identità. Significa conoscere la terra, i ritmi delle stagioni, saper leggere il cielo. Per noi, ad esempio, cacciare era parte della vita quotidiana, come saper fare il pane o interpretare i segni del tempo. “Sotto la neve pane, sotto l’acqua fame”: sono proverbi veri, che spiegano l’agricoltura meglio di un manuale”.

C’è un personaggio in particolare che le è rimasto nel cuore?

“Diversi, ma ne ricordo uno: Arturo, un mezzadro che lavorava così tanto da dover essere fermato. Il conte Pandolfini, proprietario della fattoria di Tizzano dove mio padre era fattore, lo spostò dai campi al magazzino. Lo mise a fare il “terzomo”, una figura centrale nella gestione della fattoria: gestiva gli attrezzi, il pane settimanale, l’organizzazione quotidiana. Una figura scomparsa, come tanti mestieri di allora”.

Che ruolo aveva lo sport nella vita quotidiana?

“Il calcio era la passione dominante. Bastava un pallone e una piazzetta. Pallacanestro o pallavolo erano sconosciute nei borghi. Eppure quello sport, semplice e condiviso, insegnava già molto: l’aggregazione, il rispetto delle regole, lo stare insieme”.

Nel libro ci sono anche molti riferimenti gastronomici. Perché?

“Perché il cibo è memoria. I poveri un tempo mangiavano in piedi, poi si sono potuti sedere. I ricchi, per distinguersi, hanno inventato i buffet. E poi ci sono i piatti della tradizione: cappone a Natale, agnello a Pasqua, pappardelle alla lepre. Ogni occasione aveva il suo sapore”.

Ha vissuto anche unintensa esperienza lavorativa allestero. Cosa le ha lasciato?

“Tanto. Ho lavorato per vent’anni come topografo in Africa e in America Latina. Ma oltre ai guadagni, ho imparato il rispetto per le culture diverse. Non ho mai preteso di cambiare le loro regole, ma mi aspetto che anche da noi ci sia rispetto per le nostre tradizioni”.

Prossimi progetti?

“No, non credo di scrivere altro però alcuni amici mi incoraggiano a raccontare delle veglie. In inverno ci si ritrovava nella stalla, intorno alle 17 o 18, e si raccontava ciò che era successo nella giornata. A maggio, con il bel tempo, iniziava la veglia estiva: le sedioline di legno, le donne sempre con le mani in movimento – ferme non si stava mai – e via con i racconti, alcuni davvero incredibili. Come quello dello spazzino: girava con una bicicletta e un cassettino davanti, e in un giorno non lo riempiva. Oggi, con tutto quello che buttiamo…”.

Pensa che questo libro possa aiutare i giovani a riscoprire il passato?

“Spero di sì. Ho raccontato mestieri, parole, proverbi e usanze che oggi rischiano di sparire. Credo che conoscere il passato ci aiuti a capire meglio il presente. È un omaggio alla nostra gente e un invito a non perdere le radici”.

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