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Nel 2016 veniva pubblicato “Chianti Classico: the Search for Tuscany’s Noblest Wine” di Bill Nesto e Francis Di Savino, il libro più completo riguardo al nostro territorio. Abbiamo incontrato gli autori.

Da dove nasce l’idea di fare un lavoro sul Chianti e cosa vi ha spinto a intraprendere questa strada?

Di Savino (DS): “Avendo entrambi profondissimi legami con questa terra ci siamo detti che la nostra missione sarebbe stata quella di conoscere e capire la vera storia e finalmente raccontare al mondo, ai toscani e ai chiantigiani qual è il vero Chianti oltre la narrativa convenzionale. La maggior parte del libro è incentrata su storia, cultura, e sull’evoluzione legale non solo nel contesto Chianti Classico ma della legge italiana sul vino. Fu subito chiaro dopo le prime ricerche a Boston nel 2014 che molta parte della storia era ancora nascosta, e le nostre visite agli Archivi di Siena e Firenze confermarono le nostre supposizioni”.

Nesto (N): “Abbiamo voluto scrivere questo libro per le nuove generazioni, perché i giovani hanno bisogno di fondamenta del proprio passato. Sappiamo che non è il primo libro a cui i giovani guarderanno, ma è necessario per il territorio del Chianti e per il Chianti Classico avere coscienza del proprio passato per andare avanti perché senza buone fondamenta un solido edificio non può essere costruito. Quello che ci ha spinto è stata la curiosità. Molte persone credono a quello che leggono, senza informarsi delle fonti. Noi siamo tornati indietro fino alle fonti originali e abbiamo scoperto che nella storia del Chianti molte cose sono state nascoste intenzionalmente. È stato davvero giornalismo investigativo, e senza pressioni perché abbiamo pagato di tasca propria il nostro lavoro”.

Per esempio?

DS: “Lo studio di Girolamo da Fiorenzuola. Un’affermazione presa dal manoscritto originale, trascritta male, ha creato un falso mito riguardo al sangiovese che è stato ripetuto per tre secoli da Tebaldi, Soderini, Davanzati e Villafranchi fino al 1967quando Dalmasso tenne il famoso discorso ai Georgofili. Fiorenzuola, nel 1552, specificava che per fare il prezioso vino di Toscana, era necessario il sangiovese cresciuto in una singola vigna ad altitudine elevata nei paesi del Chianti. Nessuno fino ad oggi ha fatto riferimento a ciò”.

N: “Lui scrisse anche una ricetta che è virtualmente l’equivalente del chianti degli anni ’20 (governo). Aveva già capito i due chianti, quello del fiasco e quello del grande sangiovese. Aveva anche una ricetta di vino alla francese. Interessante come gli italiani abbiano sempre guardato ai francesi nel mondo del vino con attrazione e distacco. Anche in tempi recenti è stato così con Tachis, che ha introdotto le tecnologie francesi e ha portato benessere e denaro in questo territorio, e con Gambelli che invece credeva nel sangiovese e che ha contribuito definitivamente alla sua riabilitazione”.

Perché questa confusione fra Chianti e Chianti Classico?

DS: “All’inizio dello scorso secolo il concetto di vino tipico era il perfetto costrutto legale per proteggere i vini che rassomigliavano i vini del Chianti originale ma che non erano fatti in Chianti. La domanda semmai è: come può una legge degli anni’30 essere ancora valida all’interno delle leggi dell’Unione Europea tanto più che la zona del Chianti Classico è stata riconosciuta come distretto rurale e correrà per il riconoscimento di patrimonio dell’Unesco? Già Gino Sarrocchi se lo chiedeva nel 1942”.

N: “Più di 70 membri del Consorzio producono Chianti e Chianti Classico. C’è più profitto nel produrre Chianti che Chianti Classico, ed è un’ottima cosa tenere i piedi in due staffe. Senza dimenticare che ci sono grandissimi commercianti molto importanti e piccolissimi produttori che hanno ovviamente una visione differente tra loro”.

Cosa ne pensate della proposta di zonazione?

N: “Il Chianti Classico necessita di una storia su cui potersi sviluppare. La Gran Selezione per esempio è stata semplicemente un prodotto commerciale voluto dai grandi produttori che avevano molta Riserva bloccata. L’idea di una menzione geografica è invece un primo passo verso la riflessione sul territorio. A Panzano per esempio hanno fatto un buon lavoro. Ma questo dovrebbe avvenire non in maniera caotica perché è pericoloso cominciare a definire piccole appellazioni senza prima definirne le fondamenta su cui si basano”.
Come mai un documento tanto importante come il bando di Cosimo III è stato così a lungo ignorato?”.

DS: “Per citare il professor Italo Moretti: “dava noia”. Era una verità scomoda. Scomoda per i tradizionalisti di Radda, Gaiole e Castellina perché il bando riconosceva l’esistenza di Panzano, Lamole e Greve come Chianti enologico, scomoda per la gente di San Casciano che non era incluso (anche se non ci sono chiarissime delimitazioni dei confini dalla mappa), scomoda per il Granducato e poi per l’Italia”.

Sarà mai disponibile una versione del libro in italiano, come in molti ci auspichiamo?

N: “Non sappiamo, ci sono molte sfumature che devono essere rese in maniera perfetta e questo richiede molto lavoro anche da parte nostra. Mi chiedo se non sia anche interesse di qualche ente pubblico patrocinare una buona traduzione, che credo significherebbe molto per questo territorio”.

Emanuele Grazzini

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