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Spesso si sorride ascoltando alcune espressioni della lingua contadina, si ironizza sulle virulente coloriture dialettali della gente dei campi. Ci consideriamo fieri paladini di una lingua colta e forbita che niente condividerebbe con lo schietto periodare, vivo e pulsante, del contado.
In realtà non molti sanno che la nostra meravigliosa lingua italiana – il “volgare” così chiamato perché inizialmente veniva parlato dal volgo e dai meno abbienti – soprattutto nei suoi termini più icastici e concreti – si sia lentamente costruita dalle forme della lingua agricola latina prima e del volgare poi.
Senza dilungarsi in noiose argomentazioni e semplificando un pizzico, l’italiano è una lingua neolatina che si è sviluppata naturalmente dal progressivo disgregamento del latino, perché serviva un mezzo di comunicazione più efficace, diretto e colloquiale e dal potenziale di oralità più marcato.
Inoltre il latino, a differenza di altre lingue classiche come il greco o il tedesco, non ha mai presentato una matrice lessicale a base filosofico-speculativa (più semplicemente: non esistevano termini che definissero i concetti), ma si è formato come lingua grazie all’apporto di alcuni dialetti tecnici, sui quali prevalse per importanza la lingua dell’agricoltura, peraltro la principale risorsa economica dell’antica Roma.
Quindi, non è improprio sostenere che l’italiano sia nato proprio nei campi, fra le fatiche, le soddisfazioni, gli accidenti che coltivare la terra comporta.
Proprio come “i fiori” nella canzone di De Andrè, la lingua che parliamo tutti i giorni, è sbocciata dal fango, dai ritmi del tempo scanditi dal sole, dalle piogge, dalle campane, dalle geometrie del volo degli uccelli, dai cicli di vita delle piante e degli alberi.
Le prime e più grandi opere letterarie in volgare vengono vergate nel Trecento in una lingua nuova che si parlava in Toscana da qualche secolo: Dante, Petrarca e Boccaccio, i babbi della lingua italiana, pur mantenendo una certa letterarietà espressiva, attingono da subito al mondo agricolo, a metafore agresti, a parole sonore, gorgoglianti e icastiche proprie della civiltà contadine.
Il fiorentino, lingua viva su cui poi è stato normatizzato e codificato l’italiano, inizialmente nel Cinquecento grazie alla “questione della lingua” sollevata dal veneziano Bembo, successivamente col milanese Manzoni nell’Ottocento e, infine, grazie alla radiotelevisione irradiata da Roma e all’alfabetizzazione del XX secolo (riducendone ahimè l’ampiezza lessicale e opacizzandone la coloritura espressiva) ha avuto il merito di innestare sistematicamente questo lascito classico nel mondo mezzadrile che ha caratterizzato l’Italia centrale per quasi un millennio.
In questo microcosmo sociale e culturale, anche il linguaggio, necessariamente comunicativo e raramente scritto, si è plasmato in esclamazioni, lessici, non di rado imprecazioni tipiche del lavoratore dei campi e che sono arrivate fino a oggi come parte integrante del vocabolario italiano. Infatti queste espressioni di vita agreste, originate dal latino, riprese nel volgare fiorentino, si sono durante i secoli camaleontizzate nel nostro parlato quotidiano più di quanto si possa immaginare.
Qualche esempio? Si pensi al termine “lieto”, che nell’italiano d’uso indica uno stato d’animo sereno e felice. “Laetus”, in latino, è un aggettivo che significa “grasso, concimato”. Una spia del significato originario del vocabolo, del resto, lo troviamo nel termine “letame”, che c’è giunto dal sostantivo latino “laetamen”, in questo caso senza traslarsi, mantenendo quindi intatto il significante agricolo.
Potrei portare centinaia d’esempi: attualmente io sto “scrivendo”, voi “leggendo”. In realtà “scribère” e “lègere” (i verbi latini) significavano rispettivamente “incidere” e “raccogliere”, con chiaro riferimento a gesti propri della giornata nei campi. “Condurre”, “conducente”, “condottiero” risalgono al verbo latino “dùcere”, dal significato originale di “guidare il bestiame”.
“Egregio” altro non è chi si distingue perché esce dal gregge (“ex gregiis”), “delira” chi sta fuori dal solco segnato dal vomere. La “lacrima”, nobile espressione dei nostri più intimi sentimenti, indicava la gocciolina che trasudava dalle piante e, nella vite, la linfa che saluta il risveglio vegetativo.
Una eredità colta e popolare al contempo, costruita in millenni di fatica agricola ancora oggi viva e pulsante, che ha reso noi toscani abili oratori ed efficaci comunicatori: “Ho desinato con due braciole rifatte, poi ho rigovernato i cocci nell’acquaio e li ho asciugati con l’asciughino”.
Quanta forza visiva, storica, culturale – quanta unicità e bellezza? – ha una espressione come questa?
Francesco Sorelli – Il Bisarno Oltre la Sieve