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Quelle offerte dalle colline del Chianti Classico sono “situazioni ideali per la produzione del Vin Santo, un passito di natura ossidativa che si nutre delle condizioni microclimatiche del sottotetto per la sua evoluzione, sia nella fase di appassimento delle uve, sia soprattutto nel cruciale processo di fermentazione e maturazione all’interno dei caratelli”.

Così scrive Massimo Zanichelli nella prefazione al capitolo sul Vin Santo del Chianti Classico, nel suo Grande Libro dei Vini Dolci d’Italia.

Il Vin Santo del Chianti Classico, come tutte le altre produzioni del territorio del Gallo Nero, è un prodotto unico, proprio perché nasce e modella le proprie caratteristiche organolettiche in luoghi e microclimi esclusivi e incomparabili.

E’ il simbolo dell’ospitalità per eccellenza il vino che da sempre, in Chianti, allieta i brindisi delle occasioni speciali.

Il Vin Santo del Chianti Classico è forse la più verace espressione della tradizione vinicola chiantigiana, che porta con sé un bagaglio ricco di storie, rituali e suggestioni.

Le uve messe “scenograficamente” ad appassire negli appositi locali, le piccole di botti di legno che accompagnano il vino nella sua maturazione, I profumi e le sfumature di colore che illuminano i bicchieri dopo tanti anni di attesa rappresentano un prodotto davvero unico e particolare.

Istantanee che raccontano di un nettare prezioso la cui memoria si affievolisce nel tempo in una sorta di limbo fra mito e realtà. A cominciare dall’origine del suo nome.

Se la prima menzione ufficiale è databile con certezza al 1773 nelle pagine del trattato di Oenologia toscana del Villafranchi, le spiegazioni etimologiche circolanti sull’origine del nome Vin Santo sono le più varie: dal periodo della vinificazione che veniva eseguita, secondo alcuni, all’inizio di novembre, nel giorno di Tutti i Santi, secondo altri molto dopo, addirittura nella Settimana Santa, periodo nel quale fonti diverse sostengono che il vino vada imbottigliato.

Poi ci sono, ovviamente, i legami con gli uomini della Chiesa, il vino infatti veniva usato durante la Santa Messa. Sopravvive anche la leggenda di un frate senese che compì miracoli di guarigione durante la peste del 1348, facendo bere agli ammalati questa specialità.

Ma la più pittoresca versione attribuisce il nome a un equivoco linguistico nato nel 1439 durante il Concilio di Firenze, quando la parola “Xanthos” (“giallo, biondo” in greco o “della città greca di Xanthi”, nell’odierna Tracia) pronunciata da Bessarione, patriarca della Chiesa d’Oriente, divenne “Santo” agli orecchi fiorentini, per indicare proprio il vino passito chiamato a quel tempo (ma anche in seguito) “vin pretto”.

Dove sia la verità è difficile dirlo. Quel che è certo è che, a differenza di quanto si può credere, cedendo al fascino rurale evocato da questo vino, la sua effettiva diffusione si deve ai vezzi dei ricchi signori che, già dal Medioevo, ne facevano consumo proprio perché si trattava di un prodotto esclusivo con una lavorazione decisamente onerosa. Una doppia anima che contraddistingue anche il Vin Santo del Chianti Classico: nobile nell’origine e poi oggetto di un crescente consenso popolare.

Il Vin Santo del Chianti Classico rimane una nicchia da scoprire

E’ prodotto in quantità molto ridotte, meno di 100.000 litri all’anno: forse questo è dovuto alle difficoltà e ai rischi di una produzione molto laboriosa, come pure a una commercializzazione non facile che riguarda un po’ tutti i grandi vini “a bouquet ossidato”. Ma ci si può leggere anche una certa chiusura, una riottosità tutta chiantigiana a difendere dalle contaminazioni qualcosa che viene ancora sentito come strettamente locale, addirittura familiare.

Il disciplinare della DOC “Vin Santo del Chianti Classico”, diventato legge nel 1995, vincola la produzione di Vin Santo a rigorosi standard qualitativi, in parte resi ancora più selettivi negli ultimi anni.

Le regole di produzione prevedono l’utilizzo di Trebbiano e Malvasia in larga maggioranza (minimo 60%) tra le uve del disciplinare (ma c’è anche la tipologia Occhio di Pernice, chiamata così per il suo colore scuro e intenso, da ottenersi con un minimo del 80% di Sangiovese); basse rese delle viti in campo e bassissime quelle dell’uva diventata vino; limiti di tempo per vinificare e per vendere (non prima di tre anni a partire da quello di produzione delle uve), ma anche i limiti di capacità per le botticelle da affinamento (massimo 3 ettolitri, e devono essere di legno, chiamati in loco “caratelli”).

Tuttavia questi dettami non esauriscono il racconto, e nei fatti, il prodotto esprime una personalità eccezionale, variabile di fattoria in fattoria e di anno in anno.

Dando per scontato l’accostamento al notevole vassoio della pasticceria senese, ai principali dolci fiorentini o ai soliti “cantuccini di Prato”, si potranno apprezzare alcuni Vin Santo del Chianti Classico anche con certi pecorini stagionati che metterebbero in difficoltà il più corposo rosso della zona; o sorseggiarne qualche esemplare, a temperature più basse, come aperitivo, e centellinarne altri fuori pasto come vini da meditazione. Un prodotto, quindi, molto versatile e ancora parzialmente da scoprire.

“E’ simbolo di civiltà ed ospitalità e nasce seguendo soltanto le regole della natura anziché quelle dell’uomo – commenta il giornalista Filippo Bartolotta – Una girandola di colori, un caleidoscopio di profumi e un mare di sapori che virano dal secco al dolce a seconda dell’annata, delle vigne e dello stile di ciascuna azienda. Le regole severe del Vin Santo DOC del Chianti Classico fanno nascere necessariamente solo vini di altissima qualità che meritano uno spazio più importante tra i grandi vini dolci del mondo”.

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