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Maurizio era un “Fornacino”. Fino agli anni ’60 ha svolto la sua attività, poi il mondo è cambiato e la loro attività è andata fuori mercato sospinta da nuove tecnologie e tempi di produzione.
Maurizio produceva la calce in zolle e laterizi di terracotta con metodo tradizionale etrusco/romano, mescolando argilla e marna scagliosa (galestro) dopo averla polverizzata con una specie di molino.
Questa “farina” veniva messa a bagno in una grossa conca, anch’essa di terracotta, e il giorno dopo veniva impastata a mano e poi messa nelle varie forme di cui si voleva produrre, mattoni da muro, pianelle da pavimento o ancora più sottili per il tetto sopra i travicelli, tegole alla romana (antichi) e colmi.
Questo materiale veniva deposto in una piazzola appositamente preparata per farlo essiccare.
I più difficili da deporre erano i coppi in quanto tendevano ad afflosciarsi, non potendo applicare la tecnologia moderna che estrae l’aria dall’impasto: così i pezzi che escono dalla macchina sono sorretti dall’aria.
Man mano che giornalmente si producevano materiali ed erano essiccati si mettevano al riparo in attesa del gran giorno della cottura. La produzione della calce era un grosso lavoro di esercizio fisico. Di solito c’era una cava aperta con dei grandi banchi di sasso bianco (carbonato di calcio) che veniva estratto a mano con l’ausilio di mine con polvere nera che frantumavano il banco quando la mina era ben compressa, altrimenti puff… .
Per preparare una mina, non avevano né compressore, né trapani rotanti; ma solo una “mazza” di ferro e un grosso scalpello a taglio che un cavatore teneva in mano facendolo ruotare leggermente tra un colpo e l’altro che un altro cavatore dava sopra di esso con la mazza. Se non si coordinavano bene c’era il rischio di prendere un colpo sul braccio o sulla mano. Per estrarre il materiale polveroso che via via si produceva c’era una specie di cucchiaio con un lungo manico.
La polvere che si produceva si metteva da una parte e serviva per armare la mina. Per fare un buco profondo un mezzo metro con un diametro di cinque centimetri ci poteva volere mezza giornata o anche più.
Fatto il buco si procedeva a confezionare il botto: la prima era la miccia, composta da una specie di cordone di stoffa con un’anima di polvere da sparo, che veniva calcolata oltre la profondità del foro anche il margine di sicurezza, che poteva essere il doppio del foro.
A questo cordone veniva fatto un nodo e intaccato con un coltello fino all’anima di polvere; il nodo così composto veniva infilato nel buco e dietro i chicchi di polvere nera che venivano compressi subito con un attrezzo con la parte terminale in rame con colpi di mazza. Non so quale fosse la dose dell’esplosivo.
Questa operazione era rischiosa, se si incendiava la polvere… Si continuava a pressare il foro con carta e polvere della pietra accantonata fino alla cima. Dopo aver completato l’operazione, la giornata volgeva alla sera e, fatta una ricognizione sull’assenza di persone e aver gridato “Fuoco! Fuoco!”. Il più esperto si apprestava a dar fuoco alla miccia e pronto ad allontanarsi dal luogo… .
Roberto Borghi