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Gusto sempre con piacere un bel calice di vino in compagnia. Del resto sono, siamo fortunati: lo scenario è quasi sempre incantevole, siano antiche architetture di campagna di galestro e mattoni, accanto al camino durante le cene di inverno, sia il fresco dell’aia, o di un cortile, o nell’atrio di un palazzo quando la stagione è bella.
Una lunga tavolata, i miei amici con cui spartire un quieto momento di felicità non proclamata, e attorno a noi la magnificenza della Toscana.
Siamo del resto eredi di una filosofia, di un modus vivendi che ha fatto scuola: il gusto toscano, la bella vita, il sapersela godere con temperanza. Anche col rischio di subire stereotipizzazioni caricaturali per chi ha lo sguardo presbite e abbagliato del lontano.
Un calice, anche due – del resto quel formaggio è irresistibile, quel salume mi chiama coi suoi profumi, e poi mi devo “pulire” la bocca – e allora l’atmosfera si fa spesso più sciolta, ci si confida, ci si sente a nostro agio, si affrontano questioni personali, anche intime, gli argomenti si fanno profondi. Si crea un bel clima, una “social catena” che mi fa sentire parte di un tutto.
In fondo in questi momenti noi reincarniamo, riviviamo, quello che per millenni chi ha calpestato, addomesticato, antropizzato queste stesse nostre terre, ha sempre compiuto: parlasse etrusco, latino o fiorentino, lo chiamasse simposio o convivio.
Sì, conviviale è un termine che mi piace, racconta perfettamente cosa è il vino oggi e dove deve porsi: in mezzo a chi si vuol bene, a tavola, fra franche parole. Sembrano fortunatamente finiti, complice anche la recente crisi economica, gli eccessi cattedratici, frigidamente edonistici con cui si è fruito del vino a cavallo del millennio.
Questa convivialità evoluta, questo gusto nello stare insieme, questo modo di essere riaffiora dal nostro istintivo, atavico bagaglio comportamentale e relazionale.
Di come ci siamo arrivati è una bella e lunga storia da raccontare.
Una storia licenziosa, perché parla anche di piaceri della carne.
Avvincente perché le donne, per esempio, l’ammissione al convivio, se la sono dovuta sudare attraverso momenti bui, come lo ius osculi (vedremo cosa era), e altri ben più luminosi, come la vita di Caterina de’ Medici.
Divina di Dioniso, Bacco e Fufluns.
Terrestre di fiaschi, mezzadria e arguzie contadine. Di taverne e crapule.
Tragica e comica. Eucaristica e fescennina. Mito, rito e religione.
A lieto fine e sempre dal profumo di vino. Quello stesso vino che fermentando nel grande tino dell’esistenza, millennio dopo millennio, ci ha plasmato nella nostra identità toscana e, per molti aspetti, italiana.
E pensare che tutto ha avuto inizio molto lontano da qui, nella Colchide di Giasone e degli Argonauti, l’attuale Armenia, circa 6.000 anni fa, quando si cominciò ad allevare la vite per farne vino…
Francesco Sorelli – Il Bisarno Oltre la Sieve