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E’ il simbolo dell’ospitalità per eccellenza il vino che da sempre, in Chianti, allieta i brindisi delle occasioni speciali.

Il Vinsanto del Chianti Classico è forse la più verace espressione della tradizione vinicola chiantigiana, che porta con sé un bagaglio ricco di storie, rituali e suggestioni.

Le uve messe “scenograficamente” ad appassire negli appositi locali, le piccole di botti di legno che accompagnano il vino nella sua maturazione, I profumi e le sfumature di colore che illuminano i bicchieri dopo tanti anni di attesa rappresentano un prodotto davvero unico e particolare.

Istantanee che raccontano di un nettare prezioso la cui memoria si affievolisce nel tempo in una sorta di limbo fra mito e realtà. A cominciare dall’origine del suo nome.

Se la prima menzione ufficiale è databile con certezza al 1773 nelle pagine del trattato di Oenologia toscana del Villafranchi, le spiegazioni etimologiche circolanti sull’origine del nome Vinsanto sono le più varie: dal periodo della vinificazione che veniva eseguita, secondo alcuni, all’inizio di novembre, nel giorno di Tutti i Santi, secondo altri molto dopo, addirittura nella Settimana Santa, periodo nel quale fonti diverse sostengono che il vino vada imbottigliato.

Poi ci sono, ovviamente, i legami con gli uomini della Chiesa, il vino infatti veniva usato durante la Santa Messa. Sopravvive anche la leggenda di un frate senese che compì miracoli di guarigione durante la peste del 1348, facendo bere agli ammalati questa specialità.

Ma la più pittoresca versione attribuisce il nome a un equivoco linguistico nato nel 1439 durante il Concilio di Firenze, quando la parola “Xantos” (“giallo” in greco) pronunciata da Bessarione, patriarca della Chiesa d’Oriente, divenne “Santo” agli orecchi fiorentini, per indicare proprio il vino passito chiamato a quel tempo (ma anche in seguito) “vin pretto”.

Dove sia la verità è difficile dirlo. Quel che è certo è che, a differenza di quanto si può credere, cedendo al fascino rurale evocato da questo vino, la sua effettiva diffusione si deve ai vezzi dei ricchi signori che, già dal Medioevo, ne facevano consumo proprio perché si trattava di un prodotto esclusivo con una lavorazione decisamente onerosa.

Una doppia anima che contraddistingue anche il Vinsanto del Chianti Classico: nobile nell’origine e poi oggetto di un crescente consenso popolare.

Il Vinsanto del Chianti Classico rimane una nicchia da scoprire. E’ prodotto in quantità molto ridotte, meno di 100.000 litri all’anno: forse questo è dovuto alle difficoltà e ai rischi di una produzione molto laboriosa, come pure a una commercializzazione non facile che riguarda un po’ tutti i grandi vini “a bouquet ossidato”.

Ma ci si può leggere anche una certa chiusura, una riottosità tutta chiantigiana a difendere dalle contaminazioni qualcosa che viene ancora sentito come strettamente locale, addirittura familiare.

Il disciplinare della DOC “Vin Santo del Chianti Classico”, diventato legge nel 1995, vincola la produzione di Vinsanto a rigorosi standard qualitativi, in parte resi ancora più selettivi negli ultimi anni.

Le regole di produzione prevedono l’utilizzo di Trebbiano e Malvasia in larga maggioranza (minimo 60%) tra le uve del disciplinare (ma c’è anche la tipologia Occhio di Pernice, chiamata così per il suo colore scuro e intenso, da ottenersi con un minimo del 80% di Sangiovese); basse rese delle viti in campo e bassissime quelle dell’uva diventata vino; limiti di tempo per vinificare e per vendere (non prima di tre anni a partire da quello di produzione delle uve), ma anche i limiti di capacità per le botticelle da affinamento (massimo 3 ettolitri, e devono essere di legno, chiamati in loco caratelli).

Tuttavia questi dettami non esauriscono il racconto, e nei fatti, il prodotto esprime una personalità eccezionale, variabile di fattoria in fattoria e di anno in anno.

Dando per scontato l’accostamento al notevole vassoio della pasticceria senese, ai principali dolci fiorentini o ai soliti “cantuccini di Prato”, si potranno apprezzare alcuni Vinsanto del Chianti Classico anche con certi pecorini stagionati che metterebbero in difficoltà il più corposo rosso della zona; o sorseggiarne qualche esemplare, a temperature più basse, come aperitivo, e centellinarne altri fuori pasto come vini da meditazione.

Un prodotto quindi molto versatile e ancora parzialmente da scoprire.

Dicono del Vinsanto del Chianti Classico

DANIELE CERNILLI

“Il Vinsanto, e soprattutto quello del Chianti Classico, che è la culla antica per quel vino, negli ultimi anni sta diventando qualcosa di più che una semplice curiosità. Molte aziende stanno proponendo vini di grande valore organolettico, piccole gemme paragonabili a quello che in Spagna sono gli Sherry. Giacomo Tachis un paio di decenni fa dedicò un libro proprio al Vin Santo, auspicando che potesse diventare meno folkloristico e tecnicamente meglio realizzato. Mi sembra che molti produttori abbiano colto quel suo appello e che stiano ormai proponendo vini di grande valore, ben eseguiti dal punto di vista enologico”.

Uve in appassimento

MASSIMO ZANICHELLI

“Sono da sempre legato al Vinsanto del Chianti Classico. Mi ha iniziato alla conoscenza del mondo del vino. Ricordo ancora durante il mio primo Vinitaly la sorpresa, e la conseguente emozione, nell’assaggiare un Vinsanto del 1989: non mi sarei mai aspettato di sentir uscire da un bicchiere quelle vivide sensazioni di frutta secca (i fichi, le noci, l’uva passa), né di risvegliare, come un madeleine proustiana, il mondo dei granai e delle soffitte che avevo conosciuto fin da bambino in campagna. Ancora oggi questo vino della tradizione, della memoria, dell’accoglienza rappresenta qualcosa di inconsueto e straordinario: un vino che nasce e cresce in ambienti sottotetto subendo l’azione di ripetute ossidazioni, dapprima con l’appassimento e in seguito con la fermentazione e la maturazione in caratelli sigillati; un vino davanti al quale l’enologia più tecnica alza le mani in segno di resa, affidandosi alla buona sorte e alla spontaneità delle trasformazioni più positive; un vino che sfida le regole dell’enologia contemporanea, la quale cerca il buio e le temperature costanti degli ambienti sotterranei con vinificazioni in riduzione, contro i forti sbalzi termici e le continue escursioni ossidative dei solai; un vino che sfida il tempo, perché è capace di durare (anche a bottiglia aperta) più di qualsiasi altro suo simile. Un vino che fa parte della storia, un vino che rappresenta un mondo a parte (da difendere, da proteggere, da rilanciare), un vino che è patrimonio di tutti”.

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