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Oggigiorno quando si vuole qualcosa basta scegliere, in qualità e nel prezzo; una volta, nemmeno tanto tempo fa non era così.

Tutti i beni, sia della persona che della famiglia erano forniti da persone che in seguito sono diventati artigiani e “couturier” di moda.

Ganino in attività, Gaetano per l’anagrafe, era un calzolaio appena sopra il grado di ciabattino abitante in un paese del Chianti, che faceva le scarpe su misura e all’occorrenza le riparava.

Per le operazioni di riparazione faceva il giro dei suoi clienti e si soffermava presso qualche famiglia, in grado di offrirgli spazio e qualche attrezzatura per svolgere il lavoro. Lui portava con se una borsona di paglia palustre con tutti i suoi strumenti.

La mia famiglia era una delle sue tappe in quanto mio nonno e poi mio zio Guido avevano buona attrezzatura da ciabattino: banchetto (deschetto) forma di ferro, forme di legno, pietra per battere il cuoio bagnato, pece nera, setole e spago, semenze (bullettine quadrate) e martello da calzolaio e qualche affilato trincetto.

Di solito passava un paio di volte l’anno e si tratteneva un’intera giornata a riparare le scarpe e gli zoccoli di tutti i componenti della famiglia, che in quegli anni si aggirava sulla decina di persone.
Normalmente erano scarpe “grosse”, di pelle di vacchetta con suola di cuoio coronata da robusta chiodatura, cosa che oggi ci farebbe inorridire; da quando hanno inventato le suole di gomma “carrarmato” i chiodi non si sono più visti.

Alla fine della seduta riparatoria, dopo che la famiglia aveva fatto il bilancio delle esigenze di nuove calzature per i familiari, si passava alla presa delle “misure” delle piante e dei piedi degli aspiranti calzandi.

Ganino non tirava fuori il metro di tela come si potrebbe immaginare, ma prendeva un pezzetto di carta gialla o da pacchi, e faceva una striscetta ripiegata lunga un trenta centimetri, la passava sul piede in lungo e in largo  e ad ogni riferimento faceva uno strappetto, segnava il nome e avanti un altro.

Potevano essere scarpe grosse o fini, di pelle lucida, di “nabucco” diceva. Quando le riportava e le provavamo erano perfette!

Anche perché c’era l’usanza di farle un po’ più grandi, specie ai ragazzi (a crescenza) in modo di poterle portare più a lungo se erano invernali.

Se erano sandali estivi non esitavano a tagliare la punta in modo che il  “ditone” si affacciasse all’aria e quando si davano calci eran dolori, dolori in doppio senso: per il dito e per il rimprovero dei genitori che si sciupavano le scarpe!

Roberto Borghi

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