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Si chiamava la battitura del grano la dispendiosa operazione di energie fisiche, quella che prima dell’avvento delle trebbiatrici era la separazione dei preziosi “chicchi” dalla paglia.
A quel tempo la pianta del grano era alta almeno un metro e se durante la maturazione non si “allettava”, cioè non si distendeva per terra, alla raccolta gli steli erano belli dritti e giallini, la spiga marroncina, anche con i “baffi”, turgida e piena di semi.
La “segatura” consisteva nel mietere gli steli con la falce a mano e fare tanti mazzi (covoni) come fiori, legati con alcuni steli del grano e lasciati a essiccare al sole, dopodiché venivano ammucchiati in tanti cumuli a forma di “trullo” che a fine segatura sarebbero stati trasportati sull’aia e li iniziava la battitura.
Se abbiamo occasione di vedere in TV alcuni documentari di regioni allo stato primitivo, vediamo che molti popoli usano ancora gli animali da tiro per effettuare l’operazione.
I nostri contadini invece i covoni li percuotevano violentemente contro un piano inclinato, generalmente un tronco di ulivo concavo e poi c’erano i battitori che rifinivano il lavoro su di un piano con un randello tipo clava.
Gli steli uscivano dall’operazione quasi indenni, e quindi a tempo debito venivano selezionati per fare i famosi cappelli di paglia e tant’altro.
A questo punto restava un altro grosso lavoro da fare: dividere il seme dalla “loppa” (minuzie di paglia e capsule dove alloggiava il seme), bisognava attendere che l’aria si muovesse creando un venticello adatto a far volare la loppa dopodiché il contadino avesse lanciato sapientemente in aria una palata di miscuglio: il grano cadeva vicino, la loppa più lontano… fino a esaurimento del cumulo.
Questa operazione l’ho vista fare negli anni 1944/1946, gli anni del passaggio della guerra, quando la trebbiatura a macchina ancora non era ripresa.
La battitura con la trebbiatrice rientrava invece nei canoni del lavoro più accettabili, sia per il tempo che per la fatica.
Questa operazione era organizzata preventivamente e richiedeva la presenza di diverse persone, le quali venivano reclutate tra i contadini vicini e ai quali veniva restituito “il tempo”.
L’operazione consisteva nel concentrare sull’aia tutti i covoni di grano posseduti, spesso veniva ammucchiato tipo una casa che in gergo si chiamava “barca di grano” che poteva essere tanto grande da richiedere un’intera giornata per essere trebbiata!
Il giorno stabilito arrivava la “macchina” trainata da un potente trattore che veniva posizionata (piazzata) accanto al cumulo e pure il trattore che opportunamente dotato di puleggia di rotazione e, tramite una grossa lunga cinghia, dava il movimento alla macchina.
Tutt’intorno venivano collocati gli operatori: una decina sopra la “barca” per servire quelli che stavano sopra la macchina a slegare i covoni col falcetto che l’operatore addetto infilava nelle fauci della macchina stessa; quattro stavano dietro alle bocchette da dove usciva il grano già selezionato e pronto per insaccare; una decina stavano davanti a parare la paglia e a trasportarla verso il costruendo pagliaio.
Tutt’intorno era un brulichio di polvere e pagliuzze che volavano addosso agli operatori. Parte di queste operazioni furono semplificate dall’introduzione, sulle trebbiatrici, dal nastro trasportatore – imboccatore e dalla pressatrice della paglia che eliminarono l’esigenza di alcuni operatori.
Restava sempre la polvere… che gli operatori si toglievano lavandosi alla meglio con l’acqua che il contadino era riuscito ad accumulare in vari recipienti, dopo c’era la mangiata: minestrina in brodo di oca (locio) e bollito con verdure se a mezzogiorno, la sera si poteva anche trovare la pastasciutta.
Il giorno dopo si ricominciava… fino a che la trebbiatrice si fosse allontanata dal raggio di interferenza. Questo è stato finché c’è stata la mezzadria.
Poi il grano l’hanno seminato nelle zone vocate e raccolto con la mietitrebbiatrice. La polvere è un ricordo, la nuova macchina ha l’aria condizionata. Non c’è più il pranzo collettivo… .
Roberto Borghi