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Raccontare la storia di Montevertine è un esercizio difficile nello spazio limitato di un articolo. Perché quando si racconta un’eccellenza il rischio è dimenticare qualcosa, tralasciare un particolare decisivo.
Come quel vigneto piccolo e all’apparenza insignificante, sei-sette filari piantati in modo irregolare esposti non al sole ma a nord-est, eppure su un terreno ideale, rosso e ferroso, capace di produrre un’uva superba. Da quelle “pergole torte”, che l’industriale siderurgico di Poggibonsi Sergio Manetti si era ritrovato accanto alla casa acquistata (a un prezzo stracciato dalla curia di Fiesole) nella campagna attorno a Radda come buen retiro, nacque ad inizio degli anni ’70 uno dei vini più conosciuti e apprezzati nel mondo.
Manetti non era un uomo della terra, non era cresciuto tra le vigne. Un “parvenu” della viticoltura, ma con un istinto innato per gli affari e un’attrazione viscerale per la bellezza. Collezionista, appassionato di arte e di letteratura, ma al tempo stesso uomo pragmatico.
Fu il primo a fare un vino nel cuore del Chianti classico col sangiovese in purezza, a usare le barriques, a capire l’importanza del marketing. Un pioniere che si scontrò subito con le regole del Chianti classico del tempo – la prima vendemmia fu nel ’71 – incompatibili con il monovitigno.
Inevitabile e sofferta, ma ben ponderata, la decisione di uscire dal Consorzio e la scelta di produrre un vino da tavola, poi Igt.
Manetti è scomparso prematuramente nel 2000, ma la sua filosofia è portata avanti dal figlio Martino, che ne ha raccolto l’eredità e ha continuato a puntare tutto sull qualità: dei vigneti, delle uve, della coltivazione biologica e senza macchine, ma anche dell’ambiente di lavoro. A Montevertine lavorano quattordici persone, tutte della zona, la più lontana vive alle porte di Firenze ma comunque ha origini chiantigiane. Una famiglia.
“Mio padre – racconta Manetti – è stato tra i primi a proporre qualcosa di nuovo e lo ha fatto con l’entusiamo e l’ingenuità del nuovo arrivato, quando il Chianti classico era un vino da fiasco ben lontano da quello che conosciamo oggi. Certo, ci sono state delle congiunzioni favorevoli alla sua impresa: prima di tutto un luogo vocatissimo per una viticoltura di qualità, poi l’amicizia con Giulio Gambelli, l’enologo che gli ha insegnato a fare vino valorizzando la tradizione, che per lui aveva un solo nome: sangiovese”.
L’amicizia, un altro grande elemento di questa storia. Fondamentale quella con il pittore Alberto Manfredi, che nel 1982 propose a Manetti di realizzare alcune etichette con suoi disegni da affiancare alle bottiglie “istituzionali”. Un successo immediato, tanto che pochi anni dopo restarono solo le etichette artistiche, che oggi fanno delle Pergole Torte un vero e proprio “brand”.
Un vino famoso ovunque e conosciuto in tutto il mondo come un prodotto del territorio del Chianti classico, che però resta fuori dalle organizzazioni ufficiali del marchio storico. Un paradosso, se vogliamo, che Martino Manetti spiega come la conseguenza delle scelte di suo padre. “Non abbiamo mai cambiato idea, e cerchiamo di guardare avanti puntando su innovazione e tradizione. Adesso c’è una nuova generazione di viticoltori che ha una maggiore apertura, viaggia e impara, soprattutto dall’estero”.
Dietro alla scrivania di Manetti ci sono due carte topografiche raffiguranti zone di produzione francesi. “Da tempo diciamo che nel Chianti classico serve una zonizzazione come in Francia, siamo un territorio troppo articolato ed eterogeneo”, commenta facendo riferimento proprio ai cugini d’oltralpe: “Sulla qualità dei singoli ce la giochiamo, ma sul resto siamo duecento anni dietro”, dice convinto.
E Montevertine come sarà nel futuro? “Come è sempre stata ma sempre più al passo coi tempi. La nostra sfida è mantenere la qualità e fare vini sempre buoni”. D’altronde, conclude Manetti, “i nostri clienti vogliono questo da noi: è una responsabilità enorme ma anche uno stimolo pazzesco”.
Matteo Morandini